La rappresentazione a-biografica e l'innocenza di Dreyfus


La rappresentazione a-biografica e l'innocenza di Dreyfus*

 

A dispetto di quella che è stata l'impressione anche di qualche fine critico, Proust fu un dreyfusista convinto e attivo e non ritornò mai sulle proprie posizioni. Sostenere, come alcuni hanno fatto, che la sua adesione al dreyfusismo abbia origini emotive e che la sua sensibilità per le sorti del capitano Dreyfus sia connessa al suo forte legame con la madre, ebrea e dreyfusista anch'essa (1), invita a imboccare un sentiero pericoloso, che conduce a ritenere che questa scelta non avesse solide basi e che una successiva ritrattazione o un raffreddamento posteriore del suo sentimento siano perfettamente compatibili con essa. In realtà né la correspondance né le testimonianze delle persone che hanno frequentato Proust contengono indicazioni in questo senso (2). Non soltanto il giovane Proust all'epoca del processo assistette a numerose udienze e si preoccupò attivamente, come è noto, di raccogliere firme importanti per la petizione di Zola, ma nutrì una profonda ammirazione per il maggiore Georges Picquart (colui che scoprì che la calligrafia dei documenti attribuiti a Dreyfus era quella del maggiore Esterhazy e che, benché antisemita, fu accusato di essere caduto in una trappola tesa dalla famiglia Dreyfus e poi persino di essere stato pagato da quest'ultima per scagionare il capitano), a cui nel 1898 fece persino avere di nascosto in carcere una copia di Les Plaisirs et les Jours (3). Non soltanto egli si dichiara "dreyfusard incoercible et verbeux" in una lettera dell'estate 1898 a Mlle Kiki Barthaloni (4), ma, dopo il processo del settembre 1899, in cui fu rivista la sentenza del '94 (che aveva stabilito la deportazione perpetua e perdita del grado) e Dreyfus condannato a dieci anni di carcere, egli prega la madre di spiegare alla femme de chambre di casa Proust e al portinaio suo marito di non averli ingannati sull'innocenza di Dreyfus, altrimenti i giudici non avrebbero accettato di rivedere il processo, decretando una pena inferiore e due di loro non si sarebbero certo espressi per la riabilitazione del capitano (5).

Come si spiegano allora certe affermazioni contenute nel romanzo, come questa, apparentemente senza appello: "Ogni avvenimento, fosse l'Affaire Dreyfus o la guerra, aveva fornito altrettante scuse agli scrittori per non decifrare" il "libro interiore di segni sconosciuti", quel libro "fra tutti il più difficile da decifrare" che "è anche il solo che ci abbia dettato la realtà, l'unico "impresso" in noi dalla realtà stessa. Di qualunque idea si tratti, lasciata in noi dalla vita, la sua immagine materiale, traccia dell'impressione che ci ha suscitato, è in ogni caso la prova della sua verità necessaria" (6)? Oppure il fatto, ricostruito dagli studiosi di genetica testuale, che tutto un romanzo ebraico contenuto in un certo stadio dell'evoluzione della Recherche , è stato poi eliminato nelle successive versioni, scomparendo in quella finale (7)? Ancora, perché Charles Swann, ebreo assimilato, discendente di un nonno convertito al cattolicesimo e di una nonna protestante, che per tanti versi appare come un doppio del Narratore e dunque, con le dovute cautele, dello stesso Proust, alla fine della vita, gravemente malato, diventa un acceso dreyfusardo e viene criticato dal Narratore per il suo dreyfusismo accanito, descritto come un effetto di quell'atavismo che fisiognomicamente fa persino riemergere sul volto di Swann tratti marcatamente ebraici?

Prima di dare una risposta a questi quesiti, mi sia permesso leggere alcuni passaggi relativi proprio alla descrizione dello Swann dreyfusardo: "Il dreyfusismo aveva reso Swann straordinariamente ingenuo e dato al suo modo di vedere un impulso, uno sbandamento ancor più notevole di quanto non avesse fatto un tempo il matrimonio con Odette; quel nuovo declassamento si sarebbe meglio chiamato riclassificazione e non andava che a suo onore, poiché lo immetteva nuovamente nella via dalla quale erano venuti i suoi e da cui lo avevano distolto le sue frequentazioni aristocratiche. Ma Swann, nel preciso momento in cui, tanto lucidamente, gli era concesso, grazie ai dati ereditari della sua ascendenza, di vedere una verità ancora nascosta alle persone del gran mondo, si mostrava tuttavia di una comica cecità. Rimetteva ogni sua ammirazione e ogni suo disprezzo alla prova di un criterio nuovo, il dreyfusismo" (8). In base a questo criterio Swann boccia dei letterati che agli occhi del Narratore (e di Proust) sono validi, e sempre in base allo stesso criterio spiega in modo semplificatorio la posizione antidreyfusista con l'antisemitismo, benché, dice il Narratore, egli sapesse per esperienza che alcuni antidreyfusardi non erano antisemiti (9).

Da questa pagina si ricava un elemento prezioso: proprio sulla questione cruciale dell'ebraismo il Narratore, di cui non si dice mai che sia ebreo, dunque da ritenere non ebreo, in tutte le altre occasioni attento a non schierarsi in modo netto e a non reagire in modo da far trasparire con chiarezza i suoi sentimenti a proposito dell'Affaire, si tradisce o si espone, alludendo alla verità dell'innocenza del capitano. Conferma, se mai ce ne fosse stato bisogno, della coerenza di Proust sull'Affaire, anche all'interno delle pagine più delicate dove è in gioco il suo rapporto con l'ebraismo. La presa di distanza dal dreyfusismo come criterio si spiega coerentemente con il rifiuto di qualsiasi ingenua lettura della realtà incapace di vederne la complessità, il rovescio e le pieghe più nascoste (10).

Un passo come quello che ho appena citato, ma ce ne sono molti altri dedicati all'Affaire, dimostra senza alcuna ombra di dubbio che l'Affaire è trattato da Proust come "un fenomeno storico di prima importanza" nella Recherche e che anzi esso svolge una funzione di prim'ordine, quella di "operatore sociale" (11), come ha scritto Catherine Bidou-Zachariasen in un suo importante lavoro, nel quale ha dimostrato che il ruolo dell'Affaire nella Recherche è quello di sovvertire la società descritta nel romanzo. La visione proustiana della società, letta anche alla luce del rovesciamento sociale operato dalla borghesia ai danni dell'aristocrazia e che s'incarna nella parabola di Mme Verdurin (che nel giro di quarant'anni da sconosciuta borghese diventa principessa di Guermantes, sposando il principe in rovina) non è pertanto una visione naturalistica, in cui ciascun clan o ciascuna classe sociale rimane immobile senza alterazioni nel corso degli anni. Al contrario, Proust propone una visione della nobiltà che evolve verso l'anomia (il salotto Verdurin-Guermantes, la duchessa di Guermantes che rimprovera al Narratore l'amicizia con Gilberte de Saint-Loup e al tempo stesso diventa amica dell'attrice Rachel ecc.), senza fare alcuna apologia dell'aristocrazia, e alla sua analisi sociologica non associa alcuna condanna moralistica (come fece invece Durkheim) (12). Il suo punto di vista non è però scettico e nemmeno di pura osservazione, come egli stesso insisteva a sottolineare, la sua è "un'opera dogmatica e una costruzione" (13). Se egli passò gran parte del suo tempo a frequentare l'aristocrazia e l'alta borghesia, lo fece perché quello costituiva per lui "un territorio d'analisi" (14). Se gli capitò di dover mettere tra parentesi il suo dreyfusismo o di frequentare accaniti antidreyfusardi, ciò non signifca che rinnegò le sue posizioni e nemmeno che nel romanzo fece qualcosa di simile: alla fine il dreyfusismo dichiarato e coerente di Mme Verdurin paga e le strategie più riuscite sono proprio quelle borghesi (15).

Allora, perché Proust ha occultato nel romanzo qualsiasi coinvolgimento biografico rispetto all'Affaire, cercando di rendere il più possibile neutro il Narratore rispetto a questo versante? Se non lo ha fatto perché inseguiva il modello della purezza e della neutralità dell'osservazione (compatibile con lo scetticismo metafisico) lo ha probabilmente fatto perché giudicava la strategia della rappresentazione a-biografica la più adatta a far passare determinati messaggi, certe verità, a dare rilievo a certe leggi indicate nel romanzo, a sostenere quel valore della verità che altrimenti avrebbe rischiato di essere indebolito dalle facili associazioni delle sue posizioni con elementi della propria biografia. È soltanto con un'indagine investigativa approfondita, come si è visto, che rispetto a una questione cruciale come l'Affaire si riesce a cogliere una comunanza di prospettiva tra il Narratore e l'autore, quella che Antoine Compagnon ha definito una "complicità" che il Narratore domanda al lettore (16).

Il limite di Proust rispetto all'Affaire, semmai fu — malgrado la lettura opposta che ne ha dato Hannah Arendt (17) — quello di aver sottovalutato l'antisemitismo del suo tempo e di averlo interpretato alla luce dell'antisemitismo pre-rivoluzionario. Il Narratore, non ebreo, ma particolarmente sensibile alla questione ebraica, e nient'affatto neutrale rispetto a essa, si difende, si vaccina rispetto all'antisemitismo, ma sbaglia sulle sue cause, riportandolo al sentimento antiebraico cattolico di matrice religiosa e non riconoscendone il nuovo volto psicologico e naturalistico. Ciò poiché il suo punto di vista è interno all'ottimismo ebraico dell'epoca. E, sotto un altro profilo, proprio perché Proust vede solo l'aspetto arcaico dell'antisemitismo, la rappresentazione apparentemente ambigua che ne dà è in realtà comica e grottesca, ma non certo antisemita (18). A questo proposito va ricordato, per sgombrare il campo da ogni equivoco, e qui Piperno ha perfettamente ragione, che il linguaggio usato da Proust è quello dell'epoca, in cui il termine "race" appartiene al vocabolario culturale trasversale a tutta la società e il cui uso non rimanda necessariamente a un'intenzione antisemita (19).

Ma ciò che più conta dal nostro punto di vista è che l'intenzione di Proust, anche grazie alla sofisticata strategia dell'occultamento dei biografismi (non si dimentichi quello relativo all'omosessualità, fattore che presso di lui assume pari importanza sul piano della stigmatizzazione e dell'identificabilità di un individuo) fu quella di avvicinare il lettore alla fragilità della condizione umana, di cui ha dipinto i lati oscuri e complessi, non per fare a pezzi l'umanità, annichilendola, ma per un'esigenza di verità e di fedeltà alla realtà.

È solo dalla sofferenza che nasce l'opera d'arte, dice Proust (20), ma si potrebbe aggiungere senza tradire lo spirito dell'affermazione proustiana che è dalla sofferenza che nasce la verità e che la verità ottenuta al prezzo della sofferenza è verità sulla sofferenza e che se non genera ulteriore sofferenza, non può farne evitare di nuova (21). Un sapere della sofferenza che laicamente e cartesianamente Proust, leggendone le dolorose tracce su di sé, ha trascritto e codificato in leggi e in verità generali, certo così di essersi avvicinato il più possibile a quel valore della verità che per tutta la vita aveva inseguito. Un Proust che dunque solo in parte può essere incluso nell'orizzonte nichilistico e che rimase fino all'ultimo fedele allo spirito del positivismo, quello spirito che gli ha fatto scrivere che "il mondo è un'immensità regolata da leggi" (22) e che nel 1913 gli faceva scrivere a Louis de Robert: "Ciò che faccio l'ignoro, ma so che cosa voglio fare: ora, ometto […] ogni dettaglio, ogni evento, non mi occupo che di quanto mi sembra palesare ( déceler ) qualche legge generale" (23).

 

Note

(*) Il presente testo riprende, con qualche adattamento, parte di una relazione letta al Convegno

"Aspetti e problemi del dibattito sui valori tra '800 e '900", svoltosi a Lecce, 25-26 febbraio 2002 e organizzato dal Dipartimento di Filosofia e scienze Sociali dell'Università degli Studi di Lecce.

(1) È quanto, ad esempio, hanno fatto, con toni diversi, H. David ( Proust et ses amis antisémites , in "Revue d'Histoire de la France", 5-6, 1971, pp. 909-20) e B. Brun ( Brouillons et brouillages: Proust et l'antisémitisme , in "Littérature", 70, 1988, pp. 110-128).

(2) A. Beretta Anguissola in Proust et les boucs émissaires: de Saniette à Dreyfus , riporta alcuni esempi dalla correspondance , che mostrano la linearità dei sentimenti proustiani e il permanere della sua indignazione rispetto all'Affaire: in una lettera a Madame Straus del 18 giugno 1906 Proust scrive dell'"infamia morale" degli antidreyfusardi (M. Proust, Correspondance de Marcel Proust , texte établi, presentà et annoté par P. Kolb, 21 voll., Plon, Paris, 1976-93, t. VI, p. 127), a Rosny aîné, poco prima del 23 dicembre 1919 ricorda di aver "firmato la prima petizione in assoluto a favore di Dreyfus, di essere stato un dreyfusardo ardente, inviando il suo primo libro a Picquart rinchiuso nella prigione di Cherche-Midi" ( ibidem , t. XVIII, p. 545) e, infine, ancora a Madame Straus, il 18 ottobre 1920: "Non mi crediate soprattutto diventato antidreyfusardo. Scrivo sotto la dettuatura dei miei personaggi e accade che molti in questo volume lo siano […] Allorché, leggermente nel volume seguente, e enormemente in quello che segue ancora, i miei antidreyfusarsi saranno diventati dreyfusardi, e altri che si sarebbero creduti antidreyfusardi sono follemente dreyfusardi, l'equilibrio sarà ristabilito. Ciò dico per mostrarvi che quando io sarò alla fine ristabilito (?), voi mi troverete immutato" ( ibidem , t. XIX, pp. 530—31).

(3) Cfr. nota precedente e ibidem , t. VI, p. 159.

(4) Ibidem , t. II, p. 244.

(5) Ibidem , t. II, p. 312.

(6) M. Proust, À la recherche du temps perdu , éd par J.-Y. Tadié, 4 voll., Gallimard, "Bibliothèque de la Pléiade", paris, 1987-89,, vol. IV, p. 458.

(7) Cfr. l'articolo precedentemente citato di Bernard Brun e, del medesimo autore, Les juifs dans Sodome et Gomorrhe .

(8) M. Proust, À la recherche du temps perdu , cit., vol. II, pp. 869-70.

(9) Cfr. ibidem , p. 870.

(10) Sulla questione si vedano: J. Hassine, L'écriture de l'Affaire Dreyfus dans l'oeuvre de Proust ; A. Compagnon, Le narrateur en procès , in "Marcel Proust 2", "Nouvelles directions de la recherche proustienne 1", Minard, Paris-Caen, 2000, pp. 309-334.

(11) C. Bidou-Zachariasen, Proust sociologue. De la maison aristocratique au salon bourgeois , Descartes & Cie, Paris, 1997, pp. 174, 93 e passim .

(12) Cfr. ibidem , passim (sulla duchessa di Guermantes pp. 136-37, su Durkheim p. 158).

(13) M. Proust, Correspondance de Marcel Proust , cit., t. XIII, p. 98.

(14) C. Bidou-Zachariasen, Proust sociologue, cit. p. 188.

(15) Cfr. ibidem , p. 190. Mi discosto qui dall'interpretazione offerta da Beretta Anguissola in La lobby Verdurin , in "Quaderni Proustiani", 1, 1999, pp. 23-40.

(16) A. Compagnon, Le narrateur en procès , cit., pp. 332-333.

(17) Cfr. H. Arendt, Le origini del totalitarismo , tr. it. Edizioni di Comunità, Milano, 1967, pp. 110-123 (dedicate a Proust).

(18) È questa l'interpretazione, del tutto convincente, offerta da Compagnon, a cui rinvio per approfondimenti (cfr. A. Compagnon, Le narrateur en procès , cit.).

(19) Si vedano le belle precisazioni di Compagnon a questo proposito nella sua recensione alla biografia di Proust scritta da Ghislain de Diesbach (A. Compagnon, Proust et le judaïsme , in "Critique", XLVII, 1991, pp. 905-908.

(20) Esattamente egli scrive che "le opere, come nei pozzi artesiani, montano tanto più in alto quanto poù la sofferenza ha scavato il cuore" (M. Proust, À la recherche du temps perdu , cit., vol. IV, p. 487).

(21) È quanto si può dedurre dal passo in cui egli teorizza l'inevitabilità delle passioni anche per l'artista, anche per colui che ha già realizzato un'opera d'arte: "Infatti, se si dice che gli amori, le pene del poeta gli sono servite, che lo hanno aiutato a costruire la sua opera, se le sconosciute che meno ne avevano il sospetto, l’una con una cattiveria, l’altra con uno scherzo, hanno portato ciascuna la sua pietra per l’edificazione del monumento che non vedranno, non si riflette abbastanza sul fatto che la vita dello scrittore non finisce con la sua opera, che la stessa natura che gli ha procurato le sofferenze entrate a far parte dell’opera continuerà a vivere oltre la fine dell’opera, gli farà amare altre donne in condizioni che sarebbero uguali se non le facesse leggermente deviare tutto ciò che il tempo modifica nelle circostanze, nel soggetto medesimo, nel suo appetito d’amore e nella sua resistenza al dolore" ( ibidem , vol. IV, pp. 482-483).

(22) Ibidem , vol. III, p. 897.

(23) M. Proust, Correspondance de Marcel Proust , cit., t. XII, pp. 230-31.