Le domande formulate da Marco Piazza in margine al saggio di Alessandro Piperno (Proust antiebreo , Franco Angeli, Milano 2000), credo esprimano nel modo più chiaro ed efficace le perplessità di un numero non piccolo di lettori. Farò appello alla mia esperienza di lettrice (perplessa, ma anche intrigata e un po' sedotta) dello stesso testo per pormi davanti a quelle domande: non per fornire risposte, ma forse per far nascere altre domande, secondo una ben nota consuetudine ebraica (nelle storielle ebraiche, gli ebrei rispondono a ogni domanda con un'altra domanda).

La società descritta da Proust è nettamente bipartita tra ebrei da una parte e aristocratici dall'altra? A me pare che una rigida bipartizione non sia sostenuta nemmeno da Piperno, se guardiamo all'insieme del suo libro e non a qualche singolo passo in cui l'ansia di sottolineare la componente "razzista" di Proust lo porta ad affrettate generalizzazioni. Le tensioni che attraversano una società instabile e complessa, in perenne mutamento, sono al centro delle pagine più stimolanti di Piperno: pagine che ci mostrano una borghesia arroccata intorno al mito positivistico della "volontà" come chiave del successo, ma anche attratta dal mondo di quegli aristocratici che non hanno bisogno di "volere" nulla, in quanto eredi di un inimitabile prestigio ricevuto in dono alla nascita; che ci mostrano un'aristocrazia e una borghesia travolte simultaneamente dal ciclone della smemoratezza generazionale che cancella i valori e sovverte le gerarchie, e dunque rifuse in un magma indiscernibile... Alla complessità della sociologia proustiana, per un attimo, Piperno sovrappone uno schema elementare per rendere evidente la presenza, in Proust, del concetto di "razza"; ma la ricchezza stessa dell'insieme del suo lavoro contraddice l'elementarità dello schema, ne mostra l'inadeguatezza. Perché decine di esegeti, scomodando le teorie di Goffman, di Tarde, di René Girard, si sarebbero chinati con interesse su una rappresentazione della società moderna rozzamente bipolare, gli aristocratici da una parte, gli ebrei dall'altra? Non ci crede Piperno, non ci crediamo noi, non ci crede nessuno.

Più sottile e ricco di equivoci il discorso sull'affaire Dreyfus, a proposito del quale si insinua nel saggio di Piperno un orientamento polemico a mio avviso piuttosto stonato. Il problema non è costituito dal distacco del Proust maturo nei confronti della propria giovanile passione dreyfusista: gli importanti studi di Germaine Brée (1965 e 1973) e di Emilien Carassus (1971), purtroppo assenti dalla bibliografia di Piperno, avevano già chiarito da tempo l'itinerario attraverso il quale l'autore della Recherche prende le distanze dal proprio engagement man mano che intorno al nocciolo autentico della causa dreyfusista si vanno coagulando adesioni interessate e tardive, motivate da flussi e riflussi di mode e snobismi, e strumentalizzazioni politiche. Ma bisogna sottolineare (ed è qui che Piperno procede invece piuttosto nella direzione opposta) che la presa di distanza da tutto questo non porterà mai Proust a un atteggiamento di indifferenza nei confronti del fatto che sta all'origine dell' : la condanna ingiusta di un innocente. Il fatto stesso che, in un'aggiunta tardiva della Recherche , citata da Piperno, Proust sottolinei ironicamente l'inautenticità del dreyfusismo après coup dei discendenti delle famiglie aristocratiche dediti allo stesso modo, nel 1918, "al valzer e al bolscevismo", non può che trasmettere al lettore un'idea che è il contrario dell'indifferenza: a quel dreyfusismo,ormai fuori tempo massimo, dei rivoluzionari da salotto si contrappone il dreyfusismo di chi ha avuto il coraggio di schierarsi al momento giusto, quando le forze preponderanti della società accusavano autorevolmente di anarchia i difensori minoritari del "piccolo ebreo". Se nella Recherche ci troviamo di fronte all'affaireraccontato per lampi indiretti, un po' come la battaglia di Waterloo nella Chartreuse , è certo per motivi al tempo stesso estetici e morali: la narrazione diretta, tentata da Roger Martin du Gard nel suo Jean Barois, andava nella direzione di un naturalismo che era il contrario dell'ideale estetico proustiano. Se poi ci poniamo dal punto di vista etico, come avrebbe potuto mai trovar posto, nella Recherche, un'esaltazione del dreyfusismo, anche di quello non degradato a ideologia, di quello originario, puro e duro e irrinunciabile ? Per inserirlo, Proust avrebbe dovuto abdicare alla propria estetica e adottare quella di Romain Rolland, del suo Jean Christophe (intriso di umori antisemiti: ma questa è un'altra storia). Ma la sua fedeltà alla verità non poteva passare che dalla via difficile dell'indiretto: una via che non è senza rischi far coincidere con l'indifferentismo, il relativismo post-moderno o il nichilismo postulato, nelle sue discutibili conclusioni, da Alessandro Piperno.