Proust è ossessionato dagli incarnati dei suoi personaggi. Inizialmente, imbattendomi nelle descrizioni talvolta tediosissime e maniacali sul miracolo della pigmentazione della pelle di Saint-Luop o di Madame de Guermantes, pensai si trattasse d’un’ennesima dimostrazione del fascino che le teorie razzistico-positiviste (De Gobineau e tutta l’altra schiera infame e meno infame) esercitarono su di lui sin dal principio. Ogni incarnato merita il proprio destino. Se uno viene al mondo con i capelli dai riflessi di camomilla è giusto che curi in modo trascurabile la propria istruzione, affidando la propria riuscita sociale allo sfavillio prodotto dal contatto dell’epidermide con la luce. Ma se uno ha la pelle pallida e i capelli nerissimi, allora è bene che mediti di produrre un’opera che aspiri all’assoluto. Questo ho pensato, mentre scrivevo Proust antiebreo e se non l’ho messo nel libro è solo perché mi sembrava un ulteriore abuso interpretativo, in un contesto già così abbondante d’impressioni soggettive e di giudizi sommari. E tuttavia quell’ossessione proustiana ha continuato ad agitarsi entro di me come un luogo oscuro e irrisolto della sua personalità. Forse non si può dire — come, sostengono, io abbia fatto — che il magmatico universo sociale della Recherche sia diviso tra ebrei e non-ebrei. O quanto meno tra ebrei e aristocratici, così come non si può dire che sia divisa in biondi e crespi. Ciò non toglie che Proust sia sensibile alle cromie degli incarnati, così come è attento a certi dettagli fisiognomici in un modo morboso che rinnova in me l’impressione — con tutte le cautele del caso — che lui sia un razzista.

Mi rendo conto. E’ pericoloso attribuire agli ebrei una militanza razzista, perché subito si pensa a certe frasi tipiche dell’armamentario antisemita. "Sono loro i primi razzisti…". Quale antisemita non si è servito di questo stupidissimo sofisma per nettarsi la coscienza?… "Sono loro a discriminarci… Loro e ancora loro"… E in quel loro c’è tutto.

Però bisogna pure abbandonare il mito della cautela. Perché essere superciliosi a tutti costi? Perché non sfidare frontalmente il problema?

Il razzismo di cui voglio parlare, invece, è qualcosa di più insinuante e meno spaventoso. Qualcosa cui riferirsi senza troppi timori. Qualcosa da maneggiare con spregiudicatezza, se vogliamo. Qualcosa che ha a che fare essenzialmente con la cultura, con l’antropologia e con la storia dei popoli… Quell’odioso volere che renderà sempre più facile a un aitante WASP bostoniano di diventare professore di epigrafia latina ad Harvard piuttosto che a un nero dell’Arkansas, per intendersi. Di questo razzismo voglio parlare. Del razzismo che tutti sentiamo. Quello che idealmente accetta le differenze, soffrendole nella prassi. Quello cui alludeva qualche anno fa Fiamma Nirenstein nel suo prezioso libro: Il razzista democratico (Mondadori, 1990). Il razzista democratico è quel moderato individuo tollerante e libertario che non rimane indifferente alla diversità, da cui si sente assediato, che ricorre al vaticinio di Voltaire per non cedere all’intemperanza… Quel razzista che sartrianamente pensa che il Diavolo s’incarni nell’alterità. Ebbene, secondo questo schema possiamo dire che il razzismo di Proust è una forma superiore di saggezza. E’ come un riconoscere l’evidenza delle cose. Il pleonasmo terrificante della realtà che illumina le differenze fino a farle esplodere.

Data questa premessa ciò che sentivo e non ho avuto la forza né il coraggio di scrivere nel libro è che in Proust — e non solo in lui (mi vengono in mente almeno altri dieci scrittori d’origine ebraica in cui le cose perseguono la stessa logica) — si sommuove un’oscura invidia per ciò che ai suoi occhi appare più armonico, più delicato, più morbidamente biondo, in un certo senso più accessibile (la parte dei Guermantes) e dall’altra un contraddittorio orgoglio per tutto ciò che è costruito, tutto ciò ch’è invenzione dell’intelligenza, tutto ciò ch’è baudelairianamente innaturale (la sua parte e quella della sua gente). In quell’invidia e in quell’orgoglio mi sento di situare ancora oggi — nonostante tutte le rettifiche possibili — il razzismo proustiano, così meravigliosamente ambiguo da abbattersi, alternativamente, contro una parte o contro l’altra.

Vorrei partire da una citazione, dall’apparenza incongrua, ma in altro senso straordinariamente pertinente. La estraggo dalla biografia, di recente uscita in Inghilterra con grande clamore e in Italia con minor pompa, di I. B. Berlin, il grande filosofo politico d’origine ebraico-russa, scritta da Michael Ignatieff.

"[Berlin] amava raccontare una barzelletta che parlava d’un inventore americano gobbo chiamato Stenimetz; mentre camminava nei pressi della Sinagoga Temple Emanuel sulla quinta strada a N Y insieme a Otto Kahn, un finanziere che, malgrado l’origine ebraica si era perfettamente assimilato, quest’ultimo alzò gli occhi verso la Sinagoga dicendo: "Una volta questo era il mo Tempio", e Stenimetz replicò causticamente: "E una volta io ero gobbo". Su questa storiella forse si basa quell’unico passo di Jewish Salvery in cui Berlin argomenta che essere ebreo è come essere gobbo. Ogni ebreo reagisce in modo diverso alla propria gobba: qualcuno finge di non averla affatto; altri si gloriano della gobba e la mostrano al mondo intero: e un terzo gruppo di "timidi e rispettosi esseri deformi" indossa cappotti voluminosi per nascondere la propria deformità. La metafora del gobbo non è di facile lettura. Ci rivela qualcosa della complessa vita interiore di Berlin. Il fatto che egli abbia collegato in maniera subliminale l’essere ebreo alla deformità, e che tuttavia abbia dichiarato apertamente il proprio essere ebreo sino alla fine dei suoi giorni" (M. Ignatieff, Isaiah Berlin. Ironia e libertà, Carocci, 2000, p. 205)

La posizione di Berlin è emblematica e può essere così esemplificata:

    1. Nessun individuo che abbia respirato in famiglia un odore ebraico potrà mai liberarsene (non sta a noi stabilire se sia una benedizione o una maledizione). Se sei ebreo non potrai mai essere altro: tanto più ci proverai tanto il tuo sforzo apparirà agli altri e alla tua stessa coscienza grottesco abuso.
    2. L’ebraismo (o la parodistica versione otto-novecentesca del "piccolo ebreo") sembra incarnarsi agli occhi degli stessi ebrei in una sorta di goffa, patetica deformità.
    3. Il modo di affrontare questa deformità è essenzialmente composito:
      1. C’è chi la nasconde.
      2. Chi la esalta.
      3. Chi la maledice.
      4. Chi intrattiene con essa (il caso più frequente) una sorta di sotterranea dialettica interna fatta d’ironia scanzonata, autolesionismo, fierezza dissimulata.

Sperando che lo sforzo cartesiano non sia disturbante, mi piace rilevare come Proust (che ebreo non era del tutto e forse proprio in virtù di questa sua ancestrale mancanza) abbia saputo come nessun altro (neanche Freud, Schulz, Singer, Bellow o Philip Roth a mio giudizio), non so quanto consapevolmente, ridisegnare i caratteri dell’ebraismo moderno, in cui il sentimento di odio-di-sé e il narcisismo si confondono in una pasta morbosa. Gregor Samsa o i signori K. sono troppo ebrei per esserlo autenticamente. Marcel, invece, nel disperato sforzo di non esserlo rende vivo l’atteggiamento obliquo e snob dei grandi "piccoli ebrei" del nostro secolo.

Questo discorso autorizza molti interrogativi: è lecito sostenere che il caso Proust sia il più significativo proprio perché in lui l’ansia di neutralizzare il suo disumano Narratore è terribilmente compromessa con il suo tentativo di tergersi, di cancellare l’onta ebraica, di seppellirla? Ed è altrettanto lecito sostenere che l’esemplarità dell’ebraismo proustiano sia tutta nella sua incapacità di farsi un’idea precisa del giudaismo? E’ possibile dire che il suo ibridismo si manifesti proprio in questa perpetua oscillazione umorale?

Non possiamo non sentirci dalla parte di Swann! Ma non possiamo neppure perdonargli tutto quel che lui non è riuscito a essere. Questo pare dirci Proust continuamente.

Da qui sono partito. Da qui non sono riuscito a muovermi. E da qui vorrei provare a ricominciare.

(Chissà se in un’eventuale, folle classificazione che inchiodasse i libri al proprio destino sarebbe logico dire che Proust antiebreo sia, al postutto, un libro sbagliato?

Se il diritto a una simile stringente definizione fosse garantito, sarei il primo a compiacermene. Esultare della propria fallacia? Mica un gioco fatuamente nichilista, né — vi assicuro — un vezzo auto-flagellante. Semmai una presa di distanza dalle pagine scritte in contesti e circostanze così diversi, da apparire quasi irreali.

Chi s’aspettasse una difesa d’ufficio del libro, temo rimarrà deluso, e non tanto perché pensi che sia un lavoro scadente, quanto perché credo, in coscienza, che esso abbia una sua autonomia rispetto al suo autore e che non meriti ulteriori chiarimenti, anche con tutte le indubitabili mancanze che gli vengono giustamente attribuite.

In fondo non ho neanche molto da aggiungere: avendo dedicato un libro a un argomento che fino a pochi anni fa era ritenuto, se non marginale, certamente non essenziale nell’esegesi della Recherche [errore prospettico che m’ostino a ritenere imperdonabile] e nonostante io abbia mostrato alcune gravi lacune bibliografiche [come ha notato giustamente la Bongiovanni Bertini], non sento la necessità di entrare nello specifico.

Credo [o almeno fingo di credervi] — sulla scorta di Proust — in un principio fondamentale legato al testo letterario: è come se ogni libro [ogni buon libro sicuramente], avesse un proprio specifico profondo, difficilmente accostabile. Qualcosa d’inspiegabile e che forse non va spiegato. Un sentimento della letteratura che fino a qualche anno fa avrebbe fatto inorridire qualsiasi studioso di tradizione formalista o marxista. Quel legame imprescindibile, argutamente postulato da Steiner, tra vera letteratura e sentimento primordiale. Ebbene ancorché sia disposto a riconsiderare tutto il mio scritto Proust antiebreo sotto una luce diversa, tenendo conto anche delle critiche ineccepibili che gli sono piovute addosso, tuttavia non posso dimenticare che esso è il prodotto d’un’intuizione che mi sembra ancora legittima. Ma cosa dire a Piazza che mi rimprovera una divisione fin troppo manichea tra mondo aristocratico e mondo ebraico se non che tale nettezza va inserita in un contesso dimostrativo assai più ampio? Cosa dire alla Bongiovanni Bertini quando critica la mia smania di mostrare una metafisica indifferenza di Proust e del suo Narratore nei confronti della tragedia del capitano Dreyfus, se non che ha ragione: la forzatura è evidentissima, forse per essermi troppo innamorato della provocatorietà dell’assunto? O ancora posso forse negare che le ragioni profonde che hanno spinto Beretta Anguissola a rettificare il suo giudizio su Proust di tanti anni fa, analizzato sotto una luce schopenhaueriana, siano allo stesso tempo plausibili e suggestive?).

Ma soprattutto — e qui tocchiamo il nocciolo della questione — vorrei alludere all’immoralismo proustiano. Una base importante per tutto il mio discorso.

Leggendo qualche tempo fa, in Parigi, o cara di Arbasino, il capitolo dedicato a Proust — o più precisamente alla peripezia d’un giovane scrittore lombardo che in una delle prime trasferte parigine, fedele al cliché provicialotto del letterato necrofilo in cerca di tombe celebri, tenta di rintracciare quella di Proust e di conoscere chi l’ha conosciuto — a un certo punto m’imbattei in un’immagine tipicamente arbasiniana. Una sorta di allucinazione, mediata da una sapiente ironia affabulatoria, da interpretarsi come l’ennesima provocazione neo-espressionistica, o altrimenti, più seriamente, come un giudizio di merito sulla moralità proustiana (o per meglio dire: sull’immoralità proustiana!).

"Se Proust non fosse morto nel 1922, e sepolto al Père Lachaise, che cosa avrebbe fatto al tempo dell’occupazione tedesca? Sulla settantina circa, avrebbe potuto combinare ancora parecchio; e l’amico Reynaldo, di poco più giovane, morrà infatti nel ’47. […]. Durante la guerra non avrebbe lasciato Parigi per motivi di salute. (Del resto erano lì tutti). Sarebbe rimasto a casa sua sotto l’occupazione. Avrebbe ricevuto Ernst Jünger in divisa, avrebbero chiacchierato di fiori rari e poeti minori? Non avrebbe ricusato i posti a teatro offerti da Vaudoyer per una générale di Sartre. […]. Ed ecco bussare alla porticina certi uffizialetti tedeschi assai attraenti e di gran nome… […] Proust non avrà noie per motivi razziali anzi potrà indignarsi Chez Maxim’s per gli articoli antisemiti di Jouhandeau, glisser sulle omelie didascaliche-moraleggianti del Maresciallo…" (Alberto Arbasino, Parigi, o cara, Adelphi, 1995, pp. 35-37).

Insomma l’immagine emersa dalla fantasmagorie arbasiniane è quella d’un Proust-camaleonte, un mondano cinico e spregiudicato attraversato dalla violenza della Storia dalla quale riesce a mantenere una distanza folle o disincantata. Un Proust viziato dalla sua opera interminabile, che ha smarrito ogni senso della realtà. Un Proust che non ci piace. Sembra quasi che Arbasino voglia comunicarci che, a suo parere, Proust è morto al momento giusto. Ma ci sta anche che Arbasino si riferisca, piuttosto che al Proust probabile e fantasmatico della sua visione, anche a un Proust reale. Al Proust della Recherche che noi conosciamo e amiamo. Un Proust che se non ebbe la possibilità di frequentare i nazisti (non esistevano ancora) certamente trovò il tempo di familiarizzare con i loro antesignani e futuri fiancheggiatori. Proust era uno spirito in cui il moralismo feroce e l’immoralismo si condensavano in un modo peculiarmente francese (non è forse questa la caratteristica di tutti i moralisti classici e non classici, da La Rochefoucauld fino a Cioran?). E’ proprio questo suo atteggiamento mentale, questa deformazione intellettuale che mi spinge a sostenere che Proust, pur avendo indubitabilmente aderito, sia sentimentalmente, sia fattivamente alla causa di Alfred Dreyfus, tuttavia non poteva non appuntare la sua attenzione (o almeno quella del Narratore), più che sull’umiliazione inflitta e sul clamore dell’ingiustizia, proprio sull’incresciosa vacuità del caleidoscopio sociale che aveva trasformato un terribile fatto di cronaca (via, neppure troppo terribile!) in un caposaldo della storia francese del Ventesimo Secolo. Un classico progressista dell’auto-compatimento ebraico, da cui dovremmo, una volta per tutte, liberarci.