RECENSIONI

 

 

Duncan Large, Nietzsche and Proust. A Comparative Study, New York, Oxford University Press, 2001, 298 pp.

In questo volume, per la prima volta, non soltanto viene tentata una sistematica e approfondita ricognizione del Nietzsche di Proust, ma anche un'esplorazione teoricamente densa delle affinità e delle differenze che intercorrono, intorno ad alcuni temi filosoficamente rilevanti, tra i due autori. Qualche anno fa, Pyra Wise ha compiuto una ricognizione dei precedenti, ma molto parziali in quanto a sistematicità e completezza, tentativi in queste direzioni ("Proust et Nietzsche", in Bulletin d'informations proustiennes, n. 29, 1998, pp. 115-127). Qui è sufficiente ricordare che in ambito statunitense non mancano alcuni significativi 'segni precursori', dagli accenni contenuti nel libro di Alexander Nehamas su Nietzsche (Nietzsche, life as literature, Cambridge, Harvard University Press, 1985, tr. it. di D. Stimilli, Nietzsche. La vita come letteratura, Roma, Armando, 1989) a quelli presenti in Contingency, irony and solidarity di Richard Rorty (Cambridge University Press, Cambridge, 1989; tr. it. di A.G. Gargani, La filosofia dopo la filosofia, Laterza, Roma-Bari, 1989).

Muovendosi perfettamente a suo agio sia nell'universo proustiano che in quello nietzscheano, Duncan Large nel suo lavoro — preceduto lungo l'arco di un decennio, da alcuni articoli, che ne hanno anticipato in parte i risultati — procede per tre grandi tappe.

La prima è dedicata a smontare quattro interpretazioni paradigmatiche di Proust, che concorrono a formare una sorta di ostacolo al ricercatore che intenda affrontare su un piano teorico la questione delle affinità filosofiche tra il francese e il tedesco. In effetti, salvo alcuni accenni, pochi sono stati finora gli interpreti di Proust che hanno approfondito questo tema, sviati certamente dalle celebri prese di posizione ironico-polemiche nei confronti di Nietzsche contenute nella Recherche, allorché il filosofo tedesco, di moda nella Francia degli anni '10-'20 — e qui si può consultare, tra le altre cose, il recente testo di Jacques Le Rider, Nietzsche en France. De la fin du XIX siècle au temps présent (Paris, PUF, 1999) —, viene criticato duramente dal Narratore perché incoerente, dal momento che, proprio lui che è un grande teorico del valore dell'amicizia, rompe il suo stretto e profondo (a dire dello stesso Nietzsche) legame con Wagner soltanto per motivi cultural-filosofici (della cui rilevanza in tale contesto poco importa). Alla ricerca di referenti filosofici a cui riportare la filosofia del romanzo proustiana, un'interprete come Anne Henry ha per lungo tempo privilegiato la pista schopenhaueriana e anche quando, in seguito, l'ha ridimensionata, non ha indicato possibili alternative. Una lettrice attenta e documentata come Julia Kristeva ha anch'essa sostanzialmente rinviato al pensiero dell'autore del Mondo come volontà e rappresentazione quale universo filosofico di riferimento della Recherche. Jacques Derrida, che in verità è fatto rientrare da Large nel novero degli interpreti proustiani a dire il vero un po' forzatamente (e probabilmente più per un'inspiegabile absentia che per una presenza interpretativa, oltre che per la rappresentatività che gode il pensiero della decostruzione oltreoceano), in "Force et signification" — contenuto in L'écriture et la différance — gioca la sua analisi di Proust sul confronto con Freud, a tutto vantaggio di quest'ultimo e relegando il primo tra i tributari "della logica tradizionale del segno". Large conclude con Gilles Deleuze, che orchestra il suo complesso discorso sulla ricerca di essenze da parte di Proust solo in apparenza rifacendosi alla concezione platonico-schopenhaueriana di essenza, e in realtà — ma senza mai farlo trapelare in modo netto e evidente e dunque in un certo senso 'tradendo' la propria intuizione — appoggiandosi sulla propria visione dell'opera nietzscheana, così come è delineata in Nietsche et la philosophie e in Différence et répetition.

Large sa perfettamente che non si può valutare l'importanza di una fonte proustiana dal numero delle occorrenze con cui essa compare nel romanzo (in questo caso il nome di Nietzsche, o il riferimento alle sue opere), e che altri sono i segni di una frequentazione non superficiale da parte di Proust di un'opera altrui, e della sua possibile influenza sul pensiero proustiano. A dire il vero, numerosi sono gli elementi che Large può portare a sostegno dell'importanza che la frequentazione del pensiero di Nietzsche può aver rappresentato per Proust. A parte l'amicizia e l'assidua frequentazione con Daniel Halévy, che tradusse Il caso Wagner per primo in francese, insieme a Robert Dreyfus (altro amico di Proust) e che dedicò una serie di articoli a Nietzsche su riviste e quotidiani, poi raccolti nella biografia La Vie de Fréderic Nietzsche (Paris, Calmann-Lévy, 1909), principale fonte proustiana in rapporto alla critica a Nietzsche contenuta nella Recherche, c'è la più significativa circostanza che Proust, sempre nel 1909, avrebbe meditato di scrivere un pastiche di Nietzsche, che poi, però, di fatto non avrebbe realizzato. Potrebbe essere questo il sintomo del fatto che, al di là dell’immagine riduttiva e quasi caricaturale del filosofo che emerge da quei pochi passi in cui Nietzsche viene citato esplicitamente, Proust doveva aver compiuto una lettura non superficiale di Nietzsche, in quel periodo o negli anni antecedenti. Large però non si accontenta di questa conclusione, e spinge la sua analisi comparata fino a individuare rilevanti affinità tra i due autori sul medesimo tema dell'amicizia, facendo ricorso anche a una comune matrice omosessuale dei due autori (cfr. pp. 94-107). La seconda tappa del suo discorso è dunque raggiunta una volta che è stato dissolto (o perlomeno ridmensionato nell'importanza) il Nietzsche sbeffeggiato nella Recherche; essa consiste cioè nella rimozione del secondo ostacolo che si frappone, nella prospettiva dello studioso statunitense, a una considerazione complessiva e non prevenuta delle possibili affinità tra i due autori.

La terza tappa del lavoro è la più impegnativa da raggiungere, ma è anche la più sostanziosa e ambiziosa. Ad essa sono dedicati tre capitoli (su cinque) del testo e consiste essenzialmente in un confronto intorno ad alcuni temi centrali nella riflessione di entrambi gli autori. Dar conto in maniera analitica in questa sede delle fini e talora un po' virtuosistiche — alla maniera di un certa moda americana di matrice decostruzionistica che purtroppo tarda a tramontare — scorribande interpretative di Large, risulta impossibile. Basterà forse innanzi tutto richiamare l'attenzione sui temi scelti per questo minuzioso confronto: a) il prospettivismo; b) lo statuto della soggettività; c) la temporalità. E limitarci poi ad alcune osservazioni rapsodiche. Molto convincente ci pare l'aver colto sul piano della scrittura (con tutte le implicazioni che ne seguono) la natura doppia, filosofica e letteraria, dell'opera di Nietzsche e di Proust (cfr. p. 134). Più rischioso ci pare, invece, appellarsi alla funzione creativa dell'arte per risolvere certe ambiguità, come quella che intercorre tra le prese di posizione proustiane a favore dell'essenzialismo e la generale disfatta dei paradigmi di conoscenza non solo positivistici, ma per certi versi anche idealistici, che segnano soprattutto il romanzo proustiano (cfr. pp. 150, 160). Se è vero che quello che Large chiama il "paradigma dello scienziato" (astronomo, chimico, botanico, zoologo che sia) alla fine mostra i suoi limiti, ci pare che questo segni sì l'insostenibilità di una visione essenzialistica delle verità, ma non il rifiuto in toto né del modello scientifico né nell'idea che là fuori, la realtà, è governata da leggi, sebbene risulti poi difficile, se non impossibile, stabilire quali siano quelle che governano l'interiorità dei soggetti e dunque spieghino la loro condotta. In altre parole, Proust non teorizza, a nostro parere, con la stessa foga antimetafisica di Nietzsche, un regno delle interpretazioni che sostituisce quello dei fatti, piuttosto rileva, con un misto di disappunto e di angoscia (che lentamente si convertono in una sorta di distacco entomologico), i limiti della nostra conoscenza.

Allo stesso modo, rispetto alla concezione dell'io e a quella che Large efficacemente definisce la "ricerca del sé", l'autore della Recherche, certamente influenzato dalle opere dei médécins-philosophes francesi — e in particolare da Taine — (aspetto questo, trascurato da Large, che avrebbe potuto cogliere significative convergenze con Nietzsche, che ben conosceva il dibattito francese tardoottocentesco sulla molteplicità dell'io), se è vero che talora sembra superare l'idea di un io più profondo o permanente che si contrappone agli io superficiali o successivi, in verità tiene ferma l'idea che ci sia un nucleo aggregatore di quegli io. La novità è che egli rifiuta di considerare quel nucleo nei termini sostanzialistici della metafisica, ovvero come un'anima, accontentandosi di pensarlo come una sorta di minimo comun denominatore, di punto stereoscopico che riunifica una serie di immagini di sé diverse, ma appunto dotate di un'origine comune. Intendere, come fa Large, questo nucleo nei termini 'dionisiaci' nietzscheani, come corporeità che si libera dal fardello della spiritualità, ci pare eccessivo. Più appropriato crediamo sarebbe studiare fino a che punto dietro al corpo danzante dell'ultimo Nietzsche (che riprende temi e suggestioni contenute fin dalla Nascita della tragedia) e dietro al complicato sistema di "io di ricambio" proustiani vi sia una comune meditazione dei risultati della psicologia positivistica dell'epoca, tutta rivolta a 'despiritualizzare' la psiche e a considerare il dato fisiologico come unica base certa su cui costruire una teoria dell'identità.

Un'osservazione simile vale anche per il tentativo di Large di considerare la concezione proustiana della temporalità soggiacente alla teoria della memoria involontaria e al recupero del passato in funzione di un'opera da scrivere, nei termini di un decostruzionismo o postmodernismo ante-litteram (cfr. pp. 231, 245). L'affascinante circolarità innescata dal finale della Recherche preparata da una erosione della concezione classica del futuro a favore di un più complesso dispositivo incentrato sul futuro anteriore ("futur perfect"), sarebbe cioè per Large l'equivalente della dottrina dell'eterno ritorno dell'ultimo Nietzsche. Se è vero che entrambi, Nietzsche e Proust, forzano, con le loro rispettive concezioni della temporalità, la rappresentazione progressiva e lineare del tempo che con Heidegger e con Benjamin siamo tentati di attribuire a una tradizione lunga e oppressiva, che verrebbe a coincidere alla fine con la stessa filosofia occidentale, da Platone a Nietzsche (in realtà le eccezioni a questo canone sono più di quante non appaia a prima vista), questa affinità nel 'gesto' filosofico non ci pare sia sufficiente per sostenere un'identita profonda a livello testuale. L'eterno ritorno nietzscheano, che molto deve, almeno nelle suggestioni (ma forse di più), al dibattito della fisica del tempo, come hanno mostrato i lavori di alcuni studiosi di Nietzsche, in particolare quelli di Paolo D'Iorio (si veda il suo La linea e il circolo. Cosmologia e filosofia dell'eterno ritorno in Nietzsche, Genova, Pantograf, 1995), ci pare altra cosa dall'opera senza fine che il cerchio della Recherche racchiude correndo il rischio di spezzarsi.

Malgrado una certa cautela rispetto alle tesi ivi sostenute, che sorge in risposta ad una certa qual loro eversività, i lavori come quello di Large sono molto stimolanti perché aprono piste inedite e fondate e favoriscono un riorientamento delle interpretazioni che tendono sempre a sclerotizzarsi intorno ad alcuni punti fermi, in questo caso lo schopenhauerismo di Proust, a scapito del suo evidente parallelismo intellettuale con Nietzsche, a nostro avviso meritevole di essere ulteriormente studiato.

Marco Piazza

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