RICORDO DI GIOVANNI MACCHIA

di

Mariolina Bertini

Per Adolfo Battagliese,

con amicizia

1. Querce e cespugli

Il canone letterario, costantemente riformulato (si veda in proposito il bel libro a cura di Ugo Olivieri Un canone per il terzo millennio, Milano, Bruno Mondadori, 2001), cambia di generazione in generazione. Scrittori considerati per qualche stagione centrali, paradigmatici, irrinunciabili vengono ridimensionati e lasciano il posto a ex-marginali, a innovatori misconosciuti, a figure appartate cui solo il tempo restituisce il ruolo e la statura che spettavano loro di diritto. Che ne è, in questo contesto, dei maestri della critica? Giovanni Macchia ha scritto, molto acutamente, che questi maestri, una volta usciti di scena, vengono contestati con energia proporzionale all'importanza della loro lezione: più sono stati determinanti, e più le generazioni che li seguono, per affermare la propria identità, devono criticarli, metterli in discussione, opporsi alla loro eredità. Gli accadde di esprimere questo concetto con una significativa metafora: come le montagne, più i maestri sono alti e più proiettano una vasta ombra. Da quest'ombra, le generazioni seguenti lottano per uscire. Chi ha vissuto la stagione del virulento anti-crocianesimo degli anni Sessanta e Settanta è nella posizione migliore per capire, di questa metafora, tutta la forza e la precisione. Gli anni che verranno ci diranno se e in che misura la si potrà utilizzare per leggere la storia della fortuna stessa di Giovanni Macchia.

E' noto che le riformulazioni del canone sconvolgono retrospettivamente tutte le gerarchie, tutto l'assetto di un mutevole paesaggio che la storiografia letteraria si sforza invano di fissare una volta per tutte: ci sono querce che a distanza diventano cespugli e cespugli che diventano querce. Macchia certo non è mai stato agli occhi dei contemporanei un cespuglietto (i suoi articoli sul Corriere della sera, cui collaborò dal 1962, non erano considerati meno autorevoli della sua produzione di storico della letteratura), ma io credo che con il tempo la sua statura sia destinata a crescere ancora, e il suo posto nella letteratura del '900 a farsi più considerevole. Perché Macchia mi pare appartenere a un piccolo gruppo di maestri del '900 che hanno saputo dare l'esempio dell'erudizione sterminata che sa andare al di là di se stessa, e che sa diventare, proprio grazie alla sua stessa ricchezza, lucidità critica, senso storico, coscienza netta dei valori e dei problemi.

In questo piccolo gruppo mi pare spicchino, accanto a Macchia, Giacomo Debenedetti, morto precocemente nel 1967, che egli conobbe molto bene, e Carlo Dionisotti, scomparso quasi novantenne nel 1998, che Macchia invece non incontrò mai di persona.

Dopo la loro scomparsa, Debenedetti e Dionisotti non hanno fatto che crescere in prestigio, in autorevolezza; ritengo che lo stesso accadrà a Macchia, che mi sembra condividere con loro alcuni tratti salienti.

Innanzi tutto, vorrei sottolineare quel che c'è nelle tre figure di fortemente antiaccademico. Certo, Macchia non ha avuto le vicissitudini di carriera degli altri due — in diversa misura misconosciuti dalle istituzioni universitarie italiane —, ma ha sempre affermato di considerarsi un dilettante e non un professore; ha sempre anteposto la propria immensa passione per il teatro e per il dialogo fra le arti agli appuntamenti specialistici, alla routine universitaria, alla gestione del potere accademico.

C'è poi l'ampiezza degli orizzonti: tutti e tre hanno unito l'acribia dello specialista a interessi ampi e svariati. Dionisotti ha editato Bembo e studiato il Rinascimento, ma anche Leopardi e Foscolo; ha lasciato scritti politici e civili che stanno per essere pubblicati, e scritti d'arte, Debenedetti è stato, oltre che critico, scrittore in proprio e ha spaziato come studioso da Verga a Thomas Mann a Proust, cogliendo i fili che collegavano la letteratura alla cultura scientifica e musicale. Macchia è stato un grande francesista, con competenze che andavano dal Medioevo al Novecento, dalle origini della letteratura francese sino a Rousseau e a Sade, a Raymond Roussel e a Robbe-Grillet; ha rinnovato radicalmente la visione storiografica del Seicento francese, portandone alla luce la componente anticlassicistica; ha fatto convergere su una nuova immagine del soggetto proustiano la somma di innumerevoli indagini sulla biografia, sulle letture e sull'opera dell'autore della Recherche; ma ha anche scritto studi fondamentali per l'italianistica su Pirandello, su Manzoni, sul Berni e sul Tasso, per non ricordare che i maggiori; ha esplorato l'opera dei moralisti secenteschi collegandone i temi etici e politici alla contrastata estetica barocca; ha commentato in pagine originali la pittura di Watteau e la musica di Debussy, evidenziandone le componenti letterarie; ha seguito la genesi del mito di don Giovanni tra Spagna, Italia e Francia, tra letteratura e teatro musicale, imprimendo alle ricerche su questo tema, in sede internazionale, un'impronta decisiva; ha infine lasciato nei suoi scritti autobiografici una serie di ritratti critici di maestri ed amici da cui gli storici della cultura italiana non potranno in avvenire prescindere.

Un ultimo tratto comune a Dionisotti, Macchia e Debenedetti è l'aver rappresentato tutti e tre, mi pare, un modo di vivere la cultura antitetico rispetto a quello oggi dominante nel nostro paese, dove l'aspirazione alla visibilità mediatica e l'imperativo dell'autopromozione riducono di giorno in giorno lo spazio della ricerca e dello studio. Non è forse inutile, in una società dello spettacolo che giorno dopo giorno la dittatura televisiva uniforma a standard di imprevista, abissale volgarità, mantenere viva la memoria di questi tre modelli di signorilità asciutta e rigorosa.

 

2. Baudelaire critico: la prima opera

Come nell'opera di Debenedetti e in modo ancora più accentuato in quella di Dionisotti, c'è nell'opera di Macchia un côté specialistico, che sembrerebbe dover contrastare con la vastità degli interessi e con la trasparenza della scrittura: il côté che si identifica con il gusto della documentazione più minuziosa e più rara, con le competenze bibliografiche sterminate, con il bisogno implacabile di possedere il proprio oggetto di studio in tutte le sue propaggini.

Se vogliamo farci un'idea di questo aspetto del lavoro di Macchia, ci basta prendere in mano il suo primo libro, Baudelaire critico, che altro non è che la sua tesi di laurea del 1934, arricchita e sviluppata durante il soggiorno parigino del 1935-'36 e pubblicata presso Sansoni alla vigilia della guerra, nell'agosto del 1939. Tra i suoi libri è forse il più difficile da trovare, essendo stato rieditato una sola volta, da Rizzoli, nel 1988. Il suo stesso aspetto è diversissimo da quello di tutte le opere macchiane successive: ha un apparato di note mostruoso, lungo quasi quanto il testo, nel quale viene discussa tutta la letteratura secondaria e sono vagliati in modo esauriente tutti i punti di contatto tra il pensiero estetico e il metodo critico di Baudelaire e l'estetica dell'800 e del primo '900.

E' emozionante pensare che nel periodo in cui Macchia metteva a punto alla Bibliothèque Nationale di Parigi questo saggio e il suo smisurato apparato, tra il gennaio del 1935 e l'inizio dell'estate del 1936, un altro studioso, che aveva vent'anni più di lui, lavorava nella stessa biblioteca e spesso,probabilmente, sugli stessi volumi: Walter Benjamin che, in esilio a Parigi dal 1933 al 1939, accumulava i materiali per il suo grande libro sui Passages parigini in cui l'"eroismo della vita moderna" secondo Baudelaire ha un ruolo centralissimo. Nella grande sala di rue de Richelieu, sotto l'ottocentesca volta in ferro e vetro, l'elegante studente italiano e il critico tedesco un po' calvo, con gli occhialetti sul naso, si saranno incrociati chissà quante volte davanti agli stessi usuels, alle stesse edizioni, senza sapere che strade diverse li stavano conducendo entrambi allo studio di quelle "rovine di Parigi" su cui si era infranto il sogno delle "magnifiche sorti e progressive" dell'umanità. Macchia avrebbe certo guardato con rispetto quel tedesco, il cui posto era coperto da migliaia di schede manoscritte, se avesse saputo che conosceva bene Leopardi e che frequentava Gide; Benjamin non sarebbe rimasto insensibile davanti alla versione tutta moderna dell'estetica baudelairiana che stava emergendo dalla tesi lungamente rielaborata di quel giovane pugliese, romano di adozione, che, quando usciva dalla biblioteca, adorava frequentare teatri e concerti.

Al di là di questo potenziale incontro, mai avvenuto, per comprendere Macchia l'importanza del Baudelaire critico è fondamentale. Proprio a causa dell'apparato di note che ho ricordato prima. Quell'apparato è un unicum nella produzione di Macchia. E' il solo caso in cui egli abbia dato spazio, corpo e visibilità allo sterminato dissodamento bibliografico che aveva preceduto la stesura del saggio critico. A partire dal 1939 — con minime eccezioni — quel dissodamento preliminare entra nell'ombra dell'implicito, diventa invisibile per il lettore. Continua però ad esistere, assicurando la base scientifica di tutti gli studi di Macchia: bisogna ricordarsene, per evitare di confondere certi suoi saggi privi di note a piè di pagina con le eleganti divagazioni di altri saggisti che disinvoltamente passano dalla letteratura russa ai miti persiani alla cabala senza conoscere né il russo né il persiano né l'ebraico: nell'opera di Macchia non una riga è scritta senza il granitico fondamento di una straordinaria erudizione tutta di prima mano.

Perché, dopo il Baudelaire critico, questa erudizione sparisce in una sorta di ombra discreta, libera la pagina del suo peso, della sua invasività? E' difficile rispondere a questa domanda. Forse per una sorta di orgoglioso, aristocratico dandysmo antiaccademico; forse per un fastidio d'artista verso le fatiche minuziose della compilazione; forse per non turbare l'equilibrio di una scrittura che negli anni si fa al tempo stesso più ricca e più trasparente, più limpida ed essenziale, in un culto rigoroso della forma che ha in Baudelaire il suo primo maestro e il suo primo modello.

Un'altra cosa che Baudelaire critico può aiutarci a capire, è la strategia di approccio di Macchia ai temi che gli stanno a cuore: una strategia che privilegia l'indiretto, l'eccentrico, il marginale. Per arrivare alla poesia di Baudelaire, Macchia intraprende un periplo lunghissimo lungo tutta l'attività di critico dell'autore delle Fleurs du mal, dai saggi su Delacroix a quelli sui caricaturisti, su Hugo e su Flaubert, su Constantin Guys e su Gautier, su Balzac e su Wagner. Emerge da questo periplo l'estetica baudelairiana, con il suo nocciolo di modernità antiromantica che i maestri di Macchia (Trompeo, De Lollis) erano stati incapaci di riconoscere. Proprio questo nocciolo sarà all'origine dei futuri studi baudelairiani di Macchia: l'articolo del '42 sui progetti teatrali e il fondamentale saggio sulla Poetica della malinconia del 1946. Alla poesia di Baudelaire Macchia è così arrivato attraverso il cammino più lungo, ma lungo l'itinerario ha identificato punti di vista inediti, valutato materiali misconosciuti, esplorato contiguità e affinità sfuggite ai suoi predecessori.

Su Baudelaire — che è uno dei suoi "fari" insieme a Proust, a Manzoni, a Pirandello — Macchia tornerà instancabilmente sino agli anni Ottanta, identificando approcci sempre diversi e mai convenzionali: passando attraverso le lettere ai familiari, gli abbozzi — teatrali e non — mai realizzati, il rapporto con la Parigi di Haussmann. E' opportuno ricordarlo, per notare l'analogia tra questo modo di procedere e quello di Macchia nei confronti di altri autori prediletti, da Rousseau a La Rochefoucauld, a Montaigne, a Proust: non abbordarli frontalmente e schiacciarli sotto la massa di una monografia esauriente e definitiva, ma visitarli e rivisitarli, seguendo tracce imprevedibili e cammini appartati, sino ad arrivare al cuore del testo e al segreto dello stile.

 

3. Il magma dei progetti

Prima di abbandonare Baudelaire, vorrei mettere in luce un'altra costante dell'opera di Macchia che emerge proprio in margine ad alcuni frammenti baudelairiani, nel saggio al quale ho già accennato del 1942, Divagazioni su uno scenario di Baudelaire. Nel 1942, ben prima di Georges Bataille e di Roland Barthes, Macchia scopre l'importanza di un progetto baudelairiano irrealizzato: il progetto di un dramma tratto dalla sua poesia Le vin de l'assassin. Esposto in una lettera ad un attore, il progetto baudelairiano si rivela, alla lettura di Macchia, incredibilmente fitto e denso di elementi modernissimi nel trattamento dello spazio, del tempo, del tema derivante da Poe della "psicologia del delitto". Solo il cinema — conclude Macchia — ne avrebbe permesso la realizzazione, perché il carattere troppo innovativo dell'immaginazione baudeleriana "faceva violenza" al teatro, ne faceva implodere le strutture e le convenzioni.

Credo che l'importanza di questo saggio sia veramente fondamentale per comprendere a fondo Macchia: perché in questo saggio coesistono la sua comprensione straordinariamente viva dell'estetica del teatro — che è centrale non solo nell'opera di Macchia ma nella sua vita — e l'interesse per l'opera che esiste soltanto in germe, in fieri, in una forma provvisoria destinata a non approdare mai a un risultato definitivo.

Che cosa sono i "progetti" che non approdano a piena realizzazione? Sono fantasmi, libri-fantasma, "libri da fare" il cui mistero attraversa e affascina l'esistenza intera di Macchia. L'interesse per abbozzi, stesure provvisorie e prime versioni era nell'aria nel periodo in cui Macchia si dedica alla prima analisi dei progetti baudelairiani: un saggio di Contini, del 1937, Come lavorava l'Ariosto, insieme ai lavori di De Robertis, aveva inaugurato quella che Croce avrebbe bollato un po' sprezzantemente nel 1947 come "critica degli scartafacci". Ma rispetto all'amico Contini e a De Robertis Macchia accentua diversamente la propria ricerca, le dà un altro orientamento. Certo, è perfettamente capace di organizzare una serie di frammenti apparentemente disorganici per ricostruire il progetto originario in cui si inserivano e spiegarne il fallimento o l'evoluzione: è quanto fa nel saggio ammirevole sull'inno manzoniano Ognissanti, di cui scopre una nuova strofa e molte varianti presso un collezionista romano di manoscritti nel 1947. Tuttavia la strada della filologia e della variantistica non è la sua, se non molto occasionalmente. L'opera fantasma, il progetto, il libro da fare è per lui soprattutto una sfida intellettuale e uno stimolo all'immaginazione. Contemporaneo di Borges e di Calvino, Macchia ama frequentare, in alternativa alla propria biblioteca, ricchissima e ben ordinata, un'altra biblioteca, meramente virtuale, che apre all'immaginario prospettive sconfinate: quella dei libri non scritti, alla quale dedica una bellissima pagina:

E' una biblioteca inaccessibile, aperta soltanto ai nostri sogni o ai nostri incubi. I libri sono disposti in bell'ordine nei loro alti scaffali. Una luce tenue e uguale invade i corridoi infiniti, bianca come quella delle cliniche che accolgono i neonati. Vi sono rilegature di tutte le forme, di tutte le epoche: vistose rilegature romantiche dai caratteri gotici, nude rilegature gianseniste color rosso vivo, libri in finta pergamena coi lacci color marrone o ricoperti di fiorami liberty. Sono bei libri, non c'è che dire , e anche appetitosi . Ma se un insaziabile divoratore di carta stampata , in attesa di ciò che non sa, si lanciasse su uno di quei volumi, attratto dal titolo sconosciuto e dal celebre nome dell'autore, e lo aprisse e vi affondasse dentro lo sguardo, non scoprirebbe che fogli bianchi, fogli di carta candida, immacolata, non imbrattata da inchiostri. Solo in qualcuno egli potrà scorgere segni o pagine scritte e poi cancellate, e poi riscritte, corrette, ricorrette, con lunghe budella pendenti di scrittura: ma il tutto, indecifrabile.

 

4. I fantasmi dell'Opera

E' dunque studiando i progetti baudelairiani- quasi informi, cripitici, frammentari che Macchia scopre che il limbo dei libri non scritti, il regno pieno di ombre delle opere virtuali, è uno dei suoi territori privilegiati. Forse anche perché è un territorio che si situa sugli incerti confini tra l'erudizione e l'immaginario; è una città invisibile come quelle di Calvino, un settore inesplorato della borgesiana Biblioteca di Babele. Macchia ama i territori di confine: non a caso ha dedicato tante pagine al "dialogo tra le arti", agli scambi tra pittura e teatro, tra musica e poesia. Il suo stesso, interiore, "teatro delle passioni", che dà il titolo alla sua splendida antologia personale del 1993, è una zona di confine in cui svariate forme di rappresentazione s'incontrano, si rispecchiano, si intrecciano nei modi più vari.

Un'altra zona di confine è quella tra storia e ricostruzione poetica: in questa zona Macchia si avventura con i due soli testi "di finzione" della sua vastissima opera: il Colloquio immaginario con la figlia di Molière (1975) e il Colloquio sui mostri tra un patrizio veneto e il principe di Palagonia (1978). In questi testi — che verranno portati sulla scena (il primo più e più volte, anche in Francia, con grande fortuna), ma che sembrano piuttosto scritti per la lettura, per una sorta di teatrino interiore di emozioni appena suggerite e di folgoranti intuizioni intellettuali — sono ancora due fantasmi ad affermarsi come protagonisti, ma non si tratta più di fantasmi di opere non scritte, si tratta di fantasmi di vite non vissute.

L'unica figlia di Molière, Esprit-Madeleine, è il primo di questi fantasmi: una donna della quale non si sa quasi nulla, se non che scelse, in opposizione all'esistenza dei genitori, una vita lontana dalle luci della ribalta, appartata, discreta. A questo fantasma, Macchia dà la parola facendo emergere dalla penombra di un'esistenza sacrificata ferite indicibili, torture taciute da sempre. Esprit-Madeleine odia il teatro, che ha impedito alla sua famiglia la serenità di un'esistenza normale, con la stessa tenacia accanita con la quale suo padre lo ha adorato. Ha ricordi sconvolgenti di quando, da bambina, è stata portata sulla scena vestita da amorino, e si è trovata immersa in un mondo di finzioni e di passioni che avrebbe potuto travolgerla; ha finito per rifiutare quel mondo, del quale ha indovinato la crudeltà, e nell'intuizione di quella crudeltà si è trovata d'un tratto estremamente vicina al padre, e capace di comprenderne, più di chiunque altro, la morte in palcoscenico.

Il principe di Palagonia ha un destino di solitudine paragonabile a quello di Esprit-Madeleine: considerato un'inquietante figura di eccentrico dai suoi contemporanei, vive una vita quasi da recluso nella Sicilia del secondo Settecento, facendo adornare la sua villa di Bagheria con statue di mostri che costituiscono un'enigmatica sfida al gusto classico e razionale dei suoi tempi. Anche a lui Macchia dà la parola: nel corso di un dialogo con un patrizio veneto partigiano dei "lumi", il principe ha modo di difendere con eloquente ironia la propria vita e la propria opera. Lungi dall'essere una solitaria bizzarria, la sua simbiosi con il mostruoso esprime la quintessenza della tradizione siciliana, nella quale si aggirano da sempre i draghi che popolano grotte e vulcani e le sirene che emergono dalle acque del mare. E' una tradizione antitetica a quella di Venezia fondata, non a caso, sulla venerazione per San Giorgio, uccisore del drago. D'altronde — opina in modo stringente il principe — i mostri della mitologia e della letteratura cavalleresca non sono forse innocui e addirittura simpatici a paragone dei mostri e degli automi che può creare la scienza, portatrice di ben più inquietanti e reali potenzialità distruttive? Criticando la ragione illuministica e la scienza, il principe di Palagonia incontra, senza saperlo, le argomentazioni di Baudelaire contro il progresso: un incontro che nel mondo sorvegliatissimo dell'immaginazione macchiana non ha certamente nulla di casuale.

Mi sembra che questi due fantasmi, ognuno dei quali incarna il proprio secolo in modo paradossale, e concentra in pagine essenziali i risultati di sconfinate ricerche storiche e letterarie, rappresentino uno degli aspetti più affascinanti dell'opera di Macchia: il suo tendere verso l'immaginario, verso la narrazione, verso lo spettacolo e verso la messinscena, senza peraltro rinunciare alla chiarezza nitida della ragione e alle ricchezze sterminate del sapere. In questa tensione per oltrepassarsi sta credo la modernità dell'opera del grande critico e la sua straordinaria originalità.

 

5. Giovanni Macchia e il suo angelo

Insieme a Baudelaire, a Molière, a Pirandello, Proust è tra gli scrittori ai quali Macchia ha dedicato il maggior numero di pagine. Nella sua bibliografia compaiono ben due raccolte di saggi che gli sono interamente consacrate, L'angelo della notte (1979) e Proust e dintorni (1989); nel 1997 le due raccolte sono poi confluite, con qualche aggiunta, nel volume einaudiano Tutti gli scritti su Proust. E' soprattutto dagli anni Sessanta agli anni Novanta che Macchia si interroga sui sottili, tormentati, a volte contraddittori rapporti che intercorrono tra la vita e l'opera del creatore della Recherche: quei rapporti, troppo schematicamente semplificati dalla critica di ascendenza positivista e drasticamente esclusi dal campo d'indagine dello strutturalismo, sono il terreno d'elezione della critica macchiana, l'intreccio di sintomi su cui si esercita un'instancabile perspicacia decifratoria, l'universo di echi, di riflessi e di invisibili parallelismi da cui emerge una delle più inquietanti e moderne immagini del romanziere di Swann.

Proust non è tra gli scrittori familiari a Macchia sin dalla primissima giovinezza. L'adolescente precoce che negli anni Venti si comprava, in totale autonomia e quasi in segreto, Cervantes e Manon Lescaut, I lavoratori del mare e Novantatré, Shakespeare e Delitto e castigo, non poteva trovare, nel singolare negozio romano delle Sorelle Venturini, dove i libri convivevano con spartiti e pianoforti, i volumi della Recherche, ancora inedita in italiano e incompleta anche in francese. Tuttavia gli anni degli studi ginnasiali e liceali di Macchia, dal 1923 al 1929, sono gli anni nei quali la gloria di Proust, alimentata dalle pubblicazioni postume, non cessa di crescere e di affermarsi in tutta Europa: almeno il suo nome già allora sarà giunto certamente alle orecchie del futuro studioso che sui banchi di scuola abbozzava drammi di taglio pirandelliano, per sfuggire alla noia di programmi canonici ormai pesantemente segnati dall'impronta fascista. Dell'autore della Recherche si discuteva, proprio in quegli anni, sulle pagine del "Baretti" e di "Solaria"; numerosi erano i giovani scrittori che, instradati dai saggi pionieristici di Giacomo Debenedetti, riconoscevano in Proust, per usare le parole del giovane Vittorini, "il loro maestro più autentico". E' verosimilmente durante gli studi universitari — tra il 1930 e il 1934 — che anche Macchia viene a contatto con i testi di Proust; intento alla rivendicazione, nelle pagine della sua tesi, della "modernità" di Baudelaire, non può certo restare insensibile alla modernità di Proust che, in piena crisi del modello realista, addita una delle possibili vie al rinnovamento radicale della forma romanzo. Notiamo inoltre che, durante il soggiorno parigino del 1935-'36, Macchia frequenta il salotto di Charles Du Bos, che su Proust aveva pubblicato nel 1922 e nel 1932 pagine sensibilissime, tra le più importanti di quella stagione critica.

Per quanto tutto faccia supporre che negli anni Trenta e Quaranta Macchia si collochi nella schiera degli ammiratori italiani di Proust, insieme a Giansiro Ferrata, a Gadda, a Sergio Solmi, al giovane Bonsanti, bisogna arrivare al 1949 per trovare, sulle pagine dell'elegantissima ed effimera rivista "L'Immagine", diretta da Cesare Brandi, il suo primo contributo sull'autore della Recherche: Proust e Vermeer. E' un saggio nel quale emergono già con chiarezza due costanti che contrassegneranno tutta la critica macchiana successiva: l'inclinazione ad avvicinare i grandi autori "di sbieco", entrando cioè nella loro opera e nella loro esistenza non dalla porta principale, ma da qualche ingresso secondario e appartato, e l'attenzione a quel "dialogo tra le arti" a cui sarà dedicata nel 1990 la raccolta adelphiana Elogio della luce.

Proust e Vermeer segue la presenza del pittore di Delft in tre zone diverse della Recherche: in Un amour de Swann; nella conversazione sull'arte tra il narratore e Albertine incorporata all'ultimo capitolo della Prisonnière e finalmente nell'episodio della morte di Bergotte. A questa presenza, tanto più efficace quanto più misteriosa, Proust si avvicina secondo Macchia gradualmente. Nelle pagine di Un amour de Swann il mistero di Vermeer non è veramente affrontato: il nome del pittore, il fascino della sua opera sono piuttosto utilizzati per caratterizzare la cultura di Swann, messa a fuoco con una serie di particolari eruditi e iperrealistici che paiono a Macchia singolarmente apparentati a certo citazionismo dannunziano. L'essenza dell'arte di Vermeer resta fuori dall'orizzonte di Swann: non a caso, il suo studio sul pittore resterà perennemente incompiuto, vera allegoria della sua incapacità di accedere al mondo dell'arte. Al silenzio, al mistero di Vermeer si avvicina più di Swann il narratore, quando fa notare ad Albertine che tutti i suoi quadri sono "frammenti di uno stesso mondo", riflessi di una stessa enigmatica bellezza "nuova e unica", generata da quella che nel Temps retrouvé verrà definita la "qualità della visione" dell'artista. Ma del mondo di Vermeer Swann e il narratore restano, in qualche modo, sulla soglia: soltanto Bergotte vi penetra, perché davanti alla suprema compiutezza della Veduta di Delft riconosce i segni precursori della propria morte, e comprende non astrattamente, ma con terribile immediatezza, che ogni artista è chiamato a sacrificare all'arte la propria vita, a rifonderla senza residui nello splendore di un'opera impersonale che sfiderà il tempo. "Proust volle - commenta Macchia — far cadere il suo Bergotte dinanzi al quadro da tanto tempo amato del pittore preferito, fondendo i più esatti risultati dell'osservazione […] con il presentimento del tutto fisico della morte; il particolare del quadro ("le petit pan de mur") con un senso invincibile di attrazione verso il nulla, fino a tanto che quel particolare, frammento di una bellezza eterna, bilanciando il peso della stessa vita dello scrittore e immobilizzandola, lo assorbe nel soffio della morte".

Sottolineando l'importanza di questo episodio, e il suo carattere drammaticamente autobiografico — Proust ,visitando nel 1921 un'esposizione di Vermeer, aveva avvertito la malaise che poi attribuirà a Bergotte morente — Macchia rispondeva, nel 1949, a quei critici e a quegli scrittori (da Borgese a Piovene allo stesso Croce) che nell'Italia degli anni Trenta e Quaranta avevano denunciato l'"immoralismo" di Proust. Lungi dall'essere un decadente e un immoralista, il Proust di Macchia condivide l'alta e severa moralità di Baudelaire; quella per cui l'artista deve attraversare tutte le forme del male per accedere alla verità dell'arte, "comme un parfait chimiste et comme une âme sainte".

Passeranno più di dieci anni, dopo questo saggio importante, prima che Macchia torni ad occuparsi di Proust: l'autore della Recherche è assente dalla sua bibliografia degli anni Cinquanta, e anche negli anni Sessanta si affaccia in cinque articoli soltanto, uno dedicato al primo e dimenticato recensore italiano di Proust, Lucio D'Ambra, gli altri redatti quasi tutti in margine a lettere del romanziere inedite o poco note. C'è nel Macchia di questi testi una sorta di ricorrente civetteria, quasi la sottomissione a un'implicita e segreta contrainte: quella di mostrare al lettore di saper arrivare al cuore di un'opera letteraria partendo da un particolare biografico apparentemente trascurabile. Il punto di partenza può essere una lettera nella quale Proust parla con accoramento e indignazione dello stato di degrado in cui l'Italia lascia i suoi monumenti, oppure il suo patetico appello a un amico distratto, che va troppo raramente a trovarlo; in un caso come nell'altro, l'indagine del critico-biografo sfocia sempre sulla messa a fuoco ineccepibile di un tratto significante, di un gesto sintomatico, di una parola aureolata di importanti sottintesi. Esemplari di questa strategia critica sono i due articoli consacrati nel 1965 ai rapporti di Proust con l'oscuro commediografo René Peter, Proust a Versailles e Un amico di Proust, poi unificati nell'Angelo della notte con il più suggestivo titolo La misteriosa stanza di Versailles. Macchia parte da una lettera inedita del 1907 di Proust a Peter, lettera che ha ritrovato e che pubblica per la prima volta: un frammento tra i più tipici dell'epistolario proustiano, nel quale si intrecciano una sorta di risentita nostalgia dello scrittore per l'amico che da qualche tempo lo ignora e l'inconscio desiderio di tenerlo comunque lontano, moltiplicando le difficoltà pratiche che rendono ogni incontro estremamente problematico. Da questo frammento, e dal suo contesto, Macchia ricostruisce magistralmente un episodio allora oscuro e trascurato dai biografi: il soggiorno di Proust a Versailles — dove risiedeva René Peter — tra la fine del 1906 e i primi mesi del 1907. In quel soggiorno apparentemente inspiegabile Macchia legge la "prova generale" delle condizioni di isolamento in cui Proust comincerà, due anni più tardi, a scrivere la Recherche: utilizzando la propria malattia per isolarsi, chiedendo insistentemente affetto agli amici, ma frapponendo di continuo a quest'affetto ostacoli invalicabili, e sfruttando per la propria opera anche gli elementi che potrebbero parere più refrattari. Un progetto di dramma a forti tinte, di gusto molto dubbio, concepito insieme a René Peter proprio in quei mesi, sarà probabilmente all'origine della scena nella quale la figlia di Vinteuil profana con l'amica il ritratto del padre: ben prima che sia scritta la celebre frase liminare di Swann, le ombre del romanzo a venire circolano, come spettri pirandelliani, nella vita del loro creatore.

Sempre, quando Macchia dedicherà saggi alle opere minori di Proust ( Les plaisirs et les jours, L'indifférent, gli scritti ruskiniani, l'incompiuto e giovanile romanzo epistolare) o alle sue lettere (agli amici, al suo editore, all'oscuro ammiratore italiano Alberto Lumbroso), la parabola del suo approccio resterà identica a se stessa: partire da un tratto secondario o marginale per approdare a qualche particolarità significativa del modo di essere al mondo di Proust, del suo atteggiamento verso la propria opera, della sua concezione estetica, della sua vita al servizio della scrittura.

Senza troppo moltiplicare gli esempi, vorrei soffermarmi brevemente sulle pagine che Macchia dedica a Proust nel 1978-'79 e che vanno a costituire il nucleo centrale del suo volume proustiano più celebre e più fortunato, L'angelo della notte. Si tratta di due grandi blocchi, il primo dedicato al posto dell'oblio e della malattia nella genesi della Recherche, l'altro all'io del narratore e alle sue caratteristiche più moderne e paradossali. E' in queste pagine, credo, che va cercato il contributo più originale del Macchia critico di Proust, anche se sarebbe un errore trascurare gli altri suoi contributi (in particolare le pagine fondamentali su Proust e Dostoevskij e quelle su Proust e Wagner, che completano il suo sfumatissimo, tormentato ritratto del romanziere).

Per Macchia, la malattia e l'oblio svolgono nell'esperienza e nel pensiero di Proust ruoli paralleli. Sono due realtà eminentemente negative: rappresentano il versante notturno dell'esistenza, il momento della distruzione e dello sfacelo. Ma come l'oblio è il presupposto irrinunciabile delle fulgide resurrezioni della memoria involontaria, che non possono aver luogo se il vissuto non è stato preventivamente dimenticato, cancellato, immerso nelle tenebre più profonde, così la malattia si disegna tra le ansie del vivere come pausa salvifica, isola di silenzio nella quale il soggetto creatore può consumare la sua fertile separazione dalle passioni egoistiche e dai seducenti inganni della vita mondana. Nei confronti dell'oblio e della malattia, Proust adotta una sua particolarissima strategia di esorcismo e di addomesticamento, che finisce per mettere queste due forze ostili e distruttive al servizio della sua strenua opera di costruttore. In questa strategia, contrariamente alla vulgata critica che per decenni vide in Proust un irrazionalista, un mistico, un bergsoniano avversario del positivismo, svolge un ruolo di primo piano la conoscenza scientifica più lucida e razionale. Macchia ricostruisce a questo proposito alla perfezione, per la prima volta, le letture attraverso le quali Proust esplora le teorie di alcuni fra i più autorevoli medici e psicologi del suo tempo: Théodule Ribot che aveva indagato le maladies de la volonté; Jean Camus e Philippe Pagniez, ex interni della Salpetrière, che preconizzavano la cura delle nevrosi attraverso l'isolamento del malato; Paul Sollier, studioso dei disturbi della memoria; Alfred Binet, esponente della psicologia sperimentale attento alla frammentazione dell'io, alle "alterazioni della personalità". Sulla via aperta da Charcot, ognuno di questi studiosi indaga qualche aspetto dell'influsso della psiche sulla realtà fisica: il riaffiorare dei ricordi dall'inconscio, gli effetti della suggestione sul corpo, i meccanismi misteriosi e intermittenti della volontà sono alcuni dei temi affrontati nelle loro opere. Di questo ricco patrimonio scientifico e teorico, Proust si impadronisce in modo del tutto inusuale per un profano; ma non allo scopo di porlo, come si potrebbe pensare, al servizio della propria salute, negli anni sempre più fragile e vacillante. Dopo un tentativo, d'altronde breve e poco convinto, di curarsi nel 1906 nella clinica del dottor Sollier, Proust sfrutterà in modo totalmente diverso le proprie non indifferenti conoscenze medico-scientifiche: ne farà uno strumento per fondare la propria opera sull'approfondimento e il consapevole sfruttamento della sua condizione di malato. "Se la lotta con la sua malattia era pur necessario che continuasse — commenta Macchia —, essa non sarebbe stata una lotta a viso aperto, come se la malattia fosse una nemica da stremare, da annullare. Quella malattia bisognava circondarla d'astuzia, addirittura blandirla quasi fosse una donna: ed estrarre da essa tutto ciò che può dare e che la salute non ci permette di vedere, accecati come siamo dalla sua luce. Sarebbe stata una vita piena d'ombra".

Attraverso la scienza dei positivisti suoi contemporanei, Proust ritrova così la lezione di uno dei grandi classici del suo amato Seicento, di Pascal che raccomandava le bon usage des maladies. Per Pascal, le bon usage era quello che portava l'uomo a distaccarsi dal mondo inautentico delle vanità terrene per disporsi ad accogliere la grazia divina; per Proust analogamente, il buon uso della malattia è quello dell'artista che si distacca dal mondo inautentico dell'io egoista per consacrarsi alla creazione. La malattia, l'oblio, la sofferenza stessa diventano in questa prospettiva i presupposti di quel grand œuvre alchemico da cui nasce la scrittura.

A questo punto, comprendiamo bene perché per Macchia Proust sia davvero "l'angelo della notte", espressione che riprende una frase del giovane Proust: "se il poeta percorre la notte deve farlo come l'angelo delle tenebre: portandovi la luce". E' un angelo legato da straordinarie affinità tanto a Molière quanto a Baudelaire. Molière, con la sua tragica malinconia, faceva emergere i lati oscuri del gran siècle; Baudelaire costruiva la sua poesia sull'"alchimia del dolore"; Proust fonda, per Macchia, la trasparenza e la luminosità della sua scrittura sulla luttuosa oscurità del suo isolamento di malato, sulla disintegrazione dell'io che giorno dopo giorno cede terreno alla morte, sulla presenza alluvionale dell'oblio che tutto sommerge. Di contro a tante letture spiritualistiche, religiose, edulcorate o estetizzanti, l'interpretazione macchiana disegna così, con implacabile rigore, la misteriosa parte del male, del negativo e dell'irredimibile sofferenza alla base dell'edificio della Recherche; edificio cui non è estranea, certo, la preoccupazione della salvezza, ma di una salvezza dal costo altissimo e dai connotati incerti, la sola che potesse affacciarsi ai tormentati e tempestosi orizzonti del secolo ventesimo.

"L'angelo della notte — scrive Macchia — vigila con le sue grandi ali brune su tutta l'opera di Proust, immagine dell'autore che scrive […] e insieme rappresentazione simbolica dell'essenza stessa della sua arte, immersa nel silenzio e nella solitudine. […] Agli antipodi del sole qui è la fragile figura dello scrittore che con le imposte chiuse vive immobile come un gufo, riuscendo come il gufo a veder chiaro soltanto nel buio, costretto a lavorare in uno stato di estremo pericolo: destino simile a quello di chi racconta, in un'altra grande opera notturna: Le Mille e una notte.

Come la dolce Shahrazàd, narratrice condannata alla morte, egli ignorava se il padrone del suo destino, assai meno indulgente del sultano Shahtiyar, una notte o l'altra avesse deciso che doveva prepararsi a morire. Ma, come Shahrazàd, ha anche la segreta speranza di essere salvato dalla bellezza di ciò che racconta. Perché la salvezza può giungere, come non ignorava il fiero sultano che alla fine risparmiò Shahrazàd, soltanto dall'Angelo buono della poesia, che attraverso la lunga notte ci conduce nel regno della luce".

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